Tema sulla rivolta giovanile: le banlieues di Parigi

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Visceral
view post Posted on 11/3/2010, 18:55




Tema sulla rivolta giovanile: le banlieues di Parigi



Dal 27 ottobre scorso, dalla vicina Francia ci sono giunte, tramite giornali e televisioni, scene di guerriglia urbana abbastanza inusuali per l'Europa: automobili e scuole bruciate, scontri e spari tra polizia e rivoltosi.

Dopo che due di loro sono stati uccisi dalla polizia, i giovani immigrati delle periferie parigine hanno ingaggiato un braccio di ferro con autorità e forze dell'ordine, che ha richiamato drammaticamente l'attenzione sulle condizioni di vita dei figli degli immigrati musulmani nella ricca e tollerante Francia.

Il ministro Sarkozy ha risposto alla rivolta con la repressione e apostrofando i ribelli col termine "racaille", ossia "feccia", ma ciò non ha fatto che acuire la violenza e la rabbia dei rivoltosi.

Difficile dare un giudizio su questa vicenda dall'Italia, ignorando troppe cose sulla realtà francese. Si possono però fare congetture sulla scorta dei dati riportati dai media e sulla base dell'esperienza italiana di rivolte giovanili.

La storia italiana ricorda la rivolta giovanile del Sessantotto, politicizzata e violenta in alcune frange estremiste, una rivolta principalmente diretta contro l'autorità di qualsiasi genere, percepita come troppo rigida e oppressiva. Un movimento, quello sessantottino, che tanto contribuì a rinnovare, nel bene e nel male, la società italiana.
E la più recente rivolta di Genova, dove i no-global più esagitati hanno messo a ferro e fuoco la città, contestando lo strapotere dell'ideologia liberista e delle multinazionali.
Per uscire dai fatti di casa nostra e continentali, come non ricordare la rivolte dei ghetti neri negli Stati Uniti all'indomani dell'omicidio di Martin Luther King? Si tratta di vicende che hanno similitudini con quelle francese e che sono ormai consegnate ai manuali scolastici.

Se una lezione si può trarre da questi fatti, pur evitando le troppo facili generalizzazioni, è quella di non sottovalutarli, di non liquidarli come semplici atti vandalici e teppistici. Si tratta di spie che si accendono e che segnalano che qualcosa non funziona nel motore della società. Segnalano un disagio reale, una frustrazione e un senso di precarietà diffusi, ansie e angosce che vanno tenute nel giusto conto.

Nel caso francese, i comportamenti violenti e antisociali dei figli degli immigrati musulmani, segnalano quasi certamente la disuguaglianza delle opportunità, la discriminazione razziale, la disoccupazione che raggiunge nelle periferie tassi altissimi, l'assenza di mobilità sociale in una società come quella francese troppo ingessata e tesa a favorire gli interessi di una classe di privilegiati.

I giovani, che hanno fatto proprio il principio di uguaglianza della rivoluzione francese, si vedono tagliati fuori da un'esistenza ricca di significato, dall'accesso ai consumi propagandati dalla televisione, dalla piena cittadinanza. La scuola, le aziende, l'industria del tempo libero li escludono senza appello.

Una società democratica deve a mio avviso isolare e punire i violenti, ma la risoluzione dei problemi sociali passa soprattutto attraverso il dialogo, attraverso il tentativo di recuperare degli individui, che potrebbero costituire una risorsa e non abbandonarli alla deriva dell'apatia, della droga e della criminalità.

L'integrazione degli immigrati si è rivelata ovunque molto più complicata di quanto non lasciassero intendere gli ingenui slogan progressisti e personalmente non credo alla superiorità morale degli oppressi. Tuttavia la società, i politici, gli amministratori, la classe dirigente hanno l'obbligo di costruire città più belle e vivibili, scuole che sappiano formare cittadini e abili lavoratori, economie che riducano il gap fra ricchi e poveri. Devono inoltre sostenere le famiglie e proporre modelli positivi e credibili a cui i giovani possano ispirarsi, completando con successo il proprio processo di maturazione psichica, diventando cioè degli adulti responsabili e sufficientemente appagati.

Uno slogan di qualche anno fa reclamava meno Stato e più mercato. Ma lo Stato non può scomparire, deve comportarsi da arbitro, stabilire regole, evitare distorsioni economiche così plateali come quelle odierne dove la globalizzazione non si è tradotta in maggior ricchezza e migliore qualità della vita per tutti, ma ha finito col favorire ingiustamente una ristretta cerchia di persone. L'economia deve allontanarsi dalla legge della giungla e deve ritornare a costituire un mezzo e non un fine.

Ridare concrete speranze alle giovani generazioni, favorire l'integrazione degli immigrati e creare le condizioni per uno sviluppo economico più giusto ed equilibrato costituiscono, a mio avviso, le sfide più importanti degli anni a venire, sfide che le democrazie occidentali non possono permettersi il lusso di perdere.
 
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