Canto XXXIII dell'Inferno

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Visceral
view post Posted on 10/3/2010, 20:25




Canto XXXIII dell'Inferno



Fra i dannati imprigionati nel ghiaccio, Dante ne vede uno che rode il cranio di un altro condannato. Il poeta gli chiede chi egli sia. L'ombra, sollevata la bocca dal fiero pasto, racconta al pellegrino la sua storia.

Si tratta del conte Ugolino della Gherardesca e la nuca che egli rode è quella dell'arcivescovo Ruggieri. Fu proprio il prelato a far rinchiudere con l'inganno Ugolino e i quattro figli in una cella della torre della Muda, a Pisa. Il conte ha un sogno premonitore (a cui Dante affida una funzione allegorica). L'entrata della torre, poco tempo dopo, viene fatta sprangare.
I figli disperati e fiaccati dal digiuno, dopo essersi offerti come cibo al padre, spirano a causa della sete e della fame. Ugolino, straziato dal dolore, muore per ultimo quando la fame mostrò di essere più potente del dolore.

poscia, più che il dolor potè il digiuno.

Si tratta di uno dei racconti più orribili dell'intera Commedia, reso più cupo ancora da quell'allusivo riferimento finale all'antropofagia. Ugolino è condannato perché in vita più volte, nelle faccende politiche, ricorse crudelmente all'inganno. Ma egli ora pare disinteressarsi della pena che gli viene comminata, tutto preso invece dal dolore per la sorte crudele toccata ai figli e animato ancora da propositi di vendetta.
La pena più grande per lui non sembra proprio quella di essere imprigionato nel ghiaccio, quanto di provare in eterno il dolore di un padre che ha perso i propri figli.

Dante in questo canto mostra una particolare durezza, che molto ha fatto discutere i commentatori. Arriva a maledire l'intera città di Pisa, i cui abitanti dovrebbero morire affogati dallo straripamento dell'Arno:

Ahi Pisa, vituperio delle genti
del bel paese là dove 'l sì sona (...)

L'inopinata crudeltà di Dante prosegue nella scena successiva, quando con Virgilio, scende nella Tolomea, la regione dell'Inferno dove supini e ricoperti da uno strato di ghiaccio stanno i traditori degli ospiti.
Qui fa la conoscenza di Frate Alberigo che, nell'esistenza terrena, si è macchiato di crimini gravissimi, quali l'uccisione di un fratello e del nipote. Dopo aver promesso di togliergli dal viso la crosta di ghiaccio, in modo da permettergli almeno il sollievo del pianto, Dante viene meno alla parola data, infierendo in questo modo su un dannato già severamente punito.

"(...) Ma distendi oggimai in qua la mano;
aprimi li occhi". E io non lil'apersi;
e cortesia fu lui esser villano.

Frate Alberigo ha spiegato a Dante che mentre la sua anima è dannata nel profondo dell'inferno, il suo corpo è ancora vivo sulla terra. È questa una peculiarità di molti dei peccatori ospitati in questo girone: scontano già la pena, mentre il loro corpo vive sulla terra, governato da un diavolo.

Un Dante quasi demoniaco conclude il canto, lanciando una seconda invettiva, questa volta contro i Genovesi

Ahi Genovesi, uomini diversi
d'ogne costume e pien d'ogni magagna,
perchè non siete voi del mondo spersi?
 
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